Sono sempre più numerosi gli imprenditori che decidono di impegnarsi nel sociale, non di rado anche con investimenti cospicui. Filantropia, spinta solidale? O, addirittura, mecenatismo? Beh, diciamo che un sentimento positivo di partenza c’è, ci deve essere. Ma va anche detto che oggi, soprattutto nell’attuale fase di emergenza socio-sanitaria, investire nel sociale può avere dei ritorni tutt’altro che irrilevanti da un punto di vista dell’immagine (la cosiddetta brand reputation), ma anche di mercato.
Un’azienda crea valore in termini di profitto, indotto, occupazione, ma anche di social reputation. Se questo avveniva già prima della pandemia del Coronavirus, ora l’emergenza ha inevitabilmente accesso i riflettori sulla vocazione sociale, sull’impegno a guardare oltre il giardino della propria azienda per aiutare anche gli altri. Un sondaggio, pubblicato dal Word Economic Forum, rivela che 9 cittadini su 10, a livello globale, auspicano di vivere in un mondo più sostenibile ed equo nel post-Covid 19, e che il 72% si aspetta una trasformazione nel proprio stile di vita, piuttosto che un ritorno al passato.
Insomma c’è una precisa tendenza che un buon imprenditore, mediamente illuminato, non può ignorare. E’ chiaro che la nuova mission deve essere condivisa dal mercato e dagli stessi dipendenti. Chi decide di convertirsi alla responsabilità sociale d’impresa lo fa spesso per suscitare un’impressione positiva sui propri investitori, clienti, lavoratori. Un piano di corporate social responsability diventa allora un importante biglietto da visita, strettamente collegato alle proprie politiche di marketing.
Pensiamo alle donazioni, al volontariato aziendale, alle sponsorizzazioni di eventi o ricorrenze rilevanti per il proprio settore o a campagne di comunicazione ad hoc. Per raggiungere l’obiettivo l’impresa dovrà creare un dialogo con i propri consumatori fino ad instaurare una vera e propria alleanza, sostenuta da un più alto volume di acquisti a fronte di un più alto impegno socio-ambientale. In altre parole, chi acquista qualcosa, non sta solo comprando quel determinato prodotto o servizio: si sta pagando anche, e soprattutto, per uno stile di vita e dei valori in cui ci si riconosce.
Stesso discorso per quanto riguarda i dipendenti: un’azienda che decide di guardare al sociale e di investire nel no profit, ha bisogno di avere personale in perfetta sintonia, pronto a sposare gli stessi principi etici e a sostenere, in prima persona, le iniziative portate avanti dal suo datore di lavoro.
Non a caso è sempre più frequente il diretto coinvolgimento dei dipendenti in progetti di impegno sociale aziendale. Ma l’azienda deve avere la forza (e l’intelligenza) di non prendersi la scena: i protagonisti della campagna o dell’evento sono i valori comuni che vengono espressi dalla no profit che si è deciso di sostenere. Senza contare che un atteggiamento di comunicazione discreto del brand viene sempre premiato dai media, pronti a dare visibilità a portatori di interessi e non a operazioni smaccatamente commerciali.