Per Manuela Ronchi la comunicazione è un flusso continuo che parte dagli occhi e arriva dritto al cuore, “perché, anche se si vive sempre più di social, call e digitale, è sempre il contatto umano a fare la differenza”, precisa l’affermata manager CEO di Action Agency, Action Media Ltd. “Gli occhi di Manuela sono color mocaccino fatto bene. Sono lacustri, perché s’appoggiano su di noi senza onde o scogli. Tutta la vita relazionale di madame Ronchi, quando lavora e quando non lavora, è fondata sugli sguardi, profondi e molteplici, in uscita e in entrata”. Federico Buffa, noto giornalista e telecronista sportivo italiano, la descrive così nella prefazione dell’ultimo libro di Ronchi “Le relazioni non sono pericolose: l’importanza dell’incontro all’epoca dei social”. Edito da Gribaudo, il testo è un viaggio tra i ricordi degli incontri che hanno cambiato la vita di Manuela Ronchi, da quelli lavorativi a quelli più personali. Un racconto che alterna aneddoti “intimi” e inediti con consigli pratici, esperienze che diventano tracce chiare e luminose per comprendere meglio il mondo delle pubbliche relazioni. La carriera di Manuela, inserita dalla rivista “Forbes Italia” tra le 100 donne italiane di successo del 2019, parte agli inizi degli anni ’90 con il lancio della divisione “Eventi e Produzioni” nell’agenzia di Gerry Scotti, dove si occupa anche del management di diversi personaggi TV. Nel 1995 fonda “Action Agency”, specializzata nella produzione eventi e nella gestione di personaggi sportivi e cantanti. Nel corso degli anni collabora con personaggi del calibro di Max Biaggi, Marco Pantani, Alberto Tomba, Maurizia Cacciatori, Gianmarco Pozzecco, Linus, Marco Tardelli, Ivan Zazzaroni, Adriano Panatta e tanti altri ancora. Ecco ancora Matteo Salvo, Max Calderan, Massimiliano Sechi e Raffaele Tovazzi. “Ho conosciuto tanta gente, più o meno famosa, con la quale ho sempre cercato di instaurare rapporti veri. Per fare questo lavoro c’è bisogno di sintonia, di creare le giuste sinergie. E’ chiaro – precisa – che non è sempre stato possibile. Le delusioni, i passaggi a vuoto non sono mancati, ma non ho mai derogato ai miei principi, alle mie idee, al mio modo di intendere questa professione”.
Tra internet e i social prima, e l’emergenza Covid poi, nel giro di pochi anni è cambiato un po’ tutto, anche nella comunicazione. Ci sono ancora delle regole auree da rispettare fino in fondo per fare della buona comunicazione?
Certo, e per me sono almeno tre. La prima è la capacità di ascolto: mai avere la presunzione di sapere sempre cosa dire, ignorando cosa la gente vuole ascoltare. Bisogna stare sempre con le antenne ben dritte. Poi c’è la verità, altro pilastro della buona comunicazione: per conquistare il cliente non c’è bisogno di vendere a tutti i costi. Il nostro compito è di formare e informare, lasciando poi la scelta al consumatore.
E poi?
E poi fare il nostro lavoro in maniera responsabile. Non va bene, non può andare bene che la mano destra fa business e la sinistra si lava la coscienza facendo beneficenza. Servono comportamenti socialmente responsabili, perché un’impresa, oggi più che mai, deve operare in modo equilibrato e coerente. E’ un obiettivo che ha sempre guidato il mio percorso professionale.
Nel suo libro sottolinea con grande forza l’importanza dei contatti umani. Come ha vissuto, e come stai vivendo, questa pandemia che ci costringe a rapporti a distanza e, inevitabilmente, ad un abuso di tecnologia?
Può sembrare strano ma io, in quest’anno di emergenza, mi sono nutrita ancora di più dell’energia che arriva dagli altri, dalle relazioni, dai contatti umani, anche se gestiti diversamente. Un’esigenza che ho avvertito in maniera ancora più netta in questi lunghi di mesi di costrizioni e limitazioni. Molti fanno fatica a pensare che si possa diventare amici e avere scambi importanti anche con persone del mondo del business, con i clienti delle nostre attività. A me invece è capitato spesso, e continua a capitare, di diventare amica anche di persone apparentemente lontane dal mio mondo. Quando i rapporti sono sinceri e puliti, non vedo francamente il problema. E poco mi interessa che qualcuno possa pensare che si lavora perché si conosce, perché si è amici. Io sono uno spirito libero e vado avanti per la mia strada. Se qualcuno fa retropensieri è un problema suo, purtroppo è un limite della nostra cultura che ci portiamo dentro anche di fronte alle dinamiche del mondo del lavoro. Io mi sono sempre esposta, non ho mai avuto paura di raccontarmi, come ho dimostrato anche in questo libro, dove non ho esitato a fare nomi e cognomi e a togliermi, quando necessario, qualche sassolino dalla scarpa.
Come ha fatto a tenere vive le relazioni anche in piena pandemia?
Fa parte del mio lavoro, e non può essere diversamente. A me piace condividere contenuti ed esperienze, trasferire ai miei clienti qualcosa che possa restare, che possa lasciare un segno. Più che regali, un’abitudine che non mi appartiene, preferisco fare comunicazione e lanciare un messaggio positivo, regalando, ad esempio, una maglietta di Massimiliano Sechi con la scritta #NOEXCUSES, in modo che tutti capiscano che il Covid non ci può fermare, che bisogna darsi da fare, oggi più che mai. Quest’anno, a Natale, ho regalato mezz’ora con Valter Longo, il guru internazionale della dieta della longevità. Faccio fatica ma mantengo le relazioni, anche se a distanza.
E i social? Come concilia questo strumento con il bisogno di relazioni e contatti umani?
Fanno parte del mio lavoro, ci mancherebbe. Ma vanno gestiti bene, con attenzione, senza strafare. Come Action siamo rimasti per un periodo solo su Linkedin, ma non perché sia ideologicamente contraria ai social, ma perché non posso accettare che sia diventato, in molti casi, l’unico modo per dimostrare la nostra esistenza. Troppo spesso non siamo in grado di controllare il nostro egocentrismo e i social diventano lo strumento ideale per parlare di noi stessi, a discapito delle relazioni vere. Pubblichiamo di tutto senza riflettere sulle possibili conseguenze. E invece anche una foto può avere il suo peso. Ricordo ancora quella volta che mio figlio, dopo aver pubblicato una sua foto su un mio profilo social, mi fece notare che non c’era bisogno di un post per dimostrare quanto gli volessi bene. Beh, fu una frase che mi spiazzò e mi fece riflettere a lungo. Noi pensiamo che i giovani siano dipendenti di certi meccanismi e invece, non di rado, i veri schiavi dell’apparire siamo noi adulti. La verità è che oggi sui social gira di tutto e anche i personaggi del mondo del cinema o dello spettacolo che ne abusano, perdono di fascino e di mistero. Sono sempre lì a portata di mano e, in qualche modo, ridimensionano il loro mito. Ecco perché dico che i social vanno gestiti, sempre.
Sui social gira di tutto e ci siamo tutti, magari anche chi immagina di poter fare comunicazione da solo.
Attenzione, non basta avere gli strumenti a disposizione per fare comunicazione. Anzi, mai come oggi, con l’affollamento di contenuti che c’è in rete, bisogna sapersi posizionare, entrare in sintonia con le persone, con il mercato. Dietro la comunicazione c’è un lavoro di studio e strategia che fa la differenza perché definisce i modi, i tempi e gli strumenti giusti da utilizzare per essere efficaci e raggiungere i nostri obiettivi. Attenzione ad agire d’impulso, di pancia. Un personaggio famoso che fa un tweet su un fatto di attualità, perché magari infastidito, rischia, con due righe, di incidere negativamente sul suo mercato, sui suoi clienti. Improvvisare è la cosa più sbagliata e controproducente che si possa fare, anche quando immaginiamo di fare solo un post personale. Ecco perché lavorare con attenzione e serietà sui social richiede uno staff di professionisti con competenze diverse, altro che “comunicazione fai da te”.
E siamo ancora al Covid, dannazione dei nostri giorni. Secondo lei cosa ha insegnato a chi fa comunicazione?
Tanto, spingendoci ad un cambiamento che, era già nell’aria, ma che sarebbe arrivato con tempi sicuramente più dilatati. Intanto è giusto ricordare, se qualcuno non l’ha ancora capito, che niente tornerà come prima: il Covid ci ha spinto a riorganizzarci, a lavorare a distanza ed a capitalizzare davvero gli incontri dal vivo. In questi mesi, ad esempio, mi è capitato di ridimensionare l’utilità dei “road show”, questi tour itineranti che organizzano le imprese più grandi per confrontarsi con i loro riferimenti presenti su tutto il territorio nazionale e tastare il polso del mercato. La verità è che, organizzati sulla base di un calendario fitto di appuntamenti, non consentono di tessere rapporti e relazioni con il territorio e trasferire valore aggiunto. Si traducono, il più delle volte, solo in costi e spese tutt’altro che insignificanti, senza raggiungere obiettivi importanti. Una formula che non può più funzionare, perché oggi, complice l’emergenza Covid, gli incontri fisici vanno centellinati, così come le risorse finanziarie. Il nostro modo di lavorare, e di vivere più complessivamente, è ormai cambiato e non sarà possibile tornare indietro. Meglio riorganizzarsi il più in fretta possibile per non andare fuori giri e fuori mercato.