“All’inizio, in piena emergenza Covid, non ce la siamo sentita di comunicare con i nostri pazienti attraverso uno schermo di plexiglass o indossando una mascherina. Avevamo l’impressione di alzare una barriera, di creare in qualche modo un distacco. Non è stato facile gestire quella fase”. Claudia Marino è una psicologa molto attenta alle dinamiche della comunicazione che, anche nel suo settore, ha assunto un ruolo sempre più importante. “Oggi si vive di comunicazione e chi, come noi, deve saper entrare in sintonia con chi manifesta un disagio o un problema di qualsiasi natura, ha il dovere di essere attento a queste tematiche”.

Dottoressa, come è cambiato il vostro modo di comunicare durante i mesi più critici dell’emergenza Covid?

Non è stato semplice individuare gli strumenti giusti per creare il necessario clima di relax e serenità. Ho alternato, cercando di mettermi in sintonia con il paziente, mascherina e collegamenti Skype, anche se in molti casi la soluzione migliore si è rivelata la telefonata classica. Nel nostro lavoro la voce può essere più importante della presenza fisica.

Durante l’emergenza i toni della comunicazione sono notevolmente saliti, anche in un settore delicato come il suo.

E’ vero, la comunicazione, soprattutto nel nostro ambito, dovrebbe essere sempre sobria, misurata, precisa. Se penso, ad esempio, ad alcune esternazioni di professionisti noti come Morelli e Crepet, non posso non registrare un narcisismo eccessivo che rischia di confondere i destinatari di messaggi che, al netto di qualche protagonismo di troppo, sono importanti. E, secondo me, è sbagliato trasferire dei concetti fondamentali in maniera errata, usando toni non consoni. La chiarezza deve sempre prevalere e, quando si eccede, non si aiuta chi magari cerca di orientarsi, di capire come affrontare un disagio che sta vivendo in prima persona.

Il nostro rapporto con la comunicazione è diventato frenetico, viscerale. Ne siamo tutti, più o meno, “vittime”. Questo come ha inciso nella sua professione?

La nostra professione ha bisogno di dialoghi importanti, di apertura, di sintonia. Tutto l’opposto di quanto avviene sui social, dove prevale una comunicazione rapida e sintetica. Certo i social ci mettono in qualche modo in contatto, ci fanno approcciare un problema, ma vanno utilizzati con grande attenzione.

I social possono essere comunque degli alleati nel suo lavoro? Le è mai capitato un contatto professionale via whatsapp?

No, questo no. Chi viene da me ha bisogno di parlare, di aprirsi. I social non sopperiscono al bisogno di comunicazione delle persone, anzi. Il più delle volte sono utilizzati per comunicare un’insofferenza in maniera subliminale che viene, quasi sempre, commentata in maniera superficiale, creando sensazioni di frustrazione e isolamento. E’ un errore grave pensare di affrontare, e magari risolvere, i propri problemi condividendoli sui social.

La comunicazione è per voi materia di studio e lavoro anche perché, non di rado, è diventata una pericolosa dipendenza, se non una patologia.

Purtroppo è così, la dipendenza dalla comunicazione è una patologia sempre più diffusa, alla quale spesso non si dà neanche il giusto peso perché la si ritiene in qualche modo inevitabile, come una naturale conseguenza dell’utilizzo della tecnologia. E’ vero che ne siamo tutti, in misura diversa, dipendenti, ma questo non ridimensiona il problema, anzi. Il telefonino fa ormai parte della nostra quotidianità, è un prolungamento del nostro corpo.

Come si può uscire da questo circolo?

Ci vorrebbe un’alternativa, una passione forte che riesca in qualche modo a staccarci da uno strumento che, come il telefonino, ci dà sensazioni di soddisfazione e gratificazione. Non è facile, ma bisogna coltivare passioni e, soprattutto, viverle in prima persona, non accontentarsi di guardarle. Il periodo di lockdown non ha aiutato, ci ha isolato ulteriormente, ma bisogna guardare oltre il mondo virtuale e riprendere possesso fino in fondo della propria vita.

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